Giorgio Ambrosoli, ucciso per aver fatto «politica in nome dello Stato»

Sono passati trentaquattro anni da quell’11 luglio del 1979. Quella sera Giorgio Ambrosoli aveva invitato alcuni amici a casa sua per assistere in compagnia all’incontro di boxe tra Lorenzo Zanon e Alfio Righetti per il Campionato europeo dei pesi massimi. Dopo avere cenato in un ristorante poco lontano, si piazzano davanti al televisore. Squilla il telefono, Ambrosoli risponde ma dall’altra parte c’è il silenzio. Per lui non era una novità: aveva già ricevuto minacce di morte e, in qualche modo, aveva imparato a conviverci.
L’incontro di boxe si conclude. Ambrosoli accompagna a casa con la sua auto tre dei cinque amici che avevano passato la sera con lui. Torna e parcheggia. Mentre sta chiudendo la serratura della portiera una Fiat 127 rossa si accosta. Una voce domanda: “Avvocato Ambrosoli?”. La risposta non poteva essere che “sì”. Un uomo sceso dall’auto gli dice: “Mi scusi avvocato Ambrosoli”. E’ William Aricò, il killer ingaggiato dal finanziere Michele Sindona per eliminare Ambrosoli. Che spara quattro colpi. Ambrosoli muore poco dopo sull’ambulanza, verso mezzanotte.
Era stato nominato commissario della Banca privata italiana, cuore dell’impero di Sindona, nel 1974, dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Era un professionista milanese, non molto in vista, e aveva già gestito la liquidazione della Sfi, una finanziaria vicina a Giuseppe Pella, un pezzo grosso della Dc.
Cresciuto in un ambiente conservatore, aveva militato nell’Unione monarchica e nella Gioventù liberale. Chiamato a dipanare la matassa del crack Sindona, non fece sconti a nessuno. Il finanziere siciliano era protetto da Giulio Andreotti e dalla sua corrente Dc, aveva stretti legami con il Vaticano dove, all’epoca, imperversava Paul Marcinkus con il suo Ior, con la mafia, con la massoneria più torbida, quella P2 di Licio Gelli che fu scoperta solo parecchi anni dopo. Ma Ambrosoli non si fece mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Era “un eroe borghese”, come lo definì Corrado Stajano in un bel libro (Einaudi) del 1991,
che il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito”. Lo racconta il figlio Umberto in un libro uscito da poco “Qualunque cosa succeda” (Sironi).
Già, perché la politica è anche coscienza civile, rispetto del diritto, difesa della libertà, lotta agli abusi. Quelli che erano i suoi valori. Ambrosoli non rinunciò a difenderli dal pericoloso intreccio di affari e politica che si era formato nel nome di Sindona e per questo pagò con la vita. (di Orazio Carabini da Sole 24 ore)

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